Mi irrita l’ossimòro ironico al quale devo ricorrere di fronte al muro di gomma di molti ma non trovo espressione migliore per tradurre in parole proprio quella durezza sciocca di chi insieme ti guarda perplesso, scrolla le spalle, scappa a gambe levate e rinuncia a priori allo sforzo di capire. Un mix micidiale di indifferenza, cattiveria e superficialità.
Devi specificare a chiare lettere la diagnosi perché se stai sul vago, ammesso che riferirsi a grave malattia mentale sia una vaghezza, fa comodo pensare a qualche difettuccio comportamentale, al “solito” spazio dello stress e dintorni, a qualche esasperazione comportamentale quasi sfruttata a convenienza. O al massimo, quando l’ascoltatore vuole fare il buono, a una depressione. Dove ovviamente non si arriva a toccare quella vera, patologia importante insomma…Macché, depressione come momentaccio, periodo di crisi. Orrore delle parole, questo, perché la colpa è del loro abuso o cattivo uso.
Uno scetticismo opportunistico: consente di stare alla larga, dietro un sorrisetto diffidente o cinico, una bella frase sulla normalità che non esiste, una smorfia glaciale che blatera di quel pizzico di follia con il quali si gioca a fingere un malessere.
E passi.
Ma dopo aver specificato, sprofondi ancora di più.
Schizofrenia cronica grave. Può non dire tutto a chi non ha competenze specifiche ma molto sicuramente si, anche all’uomo della strada, a quello felicemente lontano da qualsiasi afflizione di tale tipo, a quello abituato a vedere la malattia nel piede, nello stomaco, nei reni. Invece non è così. Ti guardano attoniti, poi si fanno sfuggenti. Se ti tocca insistere affiora addirittura un fastidio. Se provi a scandire i termini della situazione le braccia si allargano e il tempo tiranno come mai sbarra subito la porta ad ogni approfondimento. Non possono proprio dedicarti attenzione, men che mai comprensione.
Concediamo di far passare anche questo.
Restano le aspettative. Insomma la diagnosi e i tarpati tentativi di spiegazione sembrano infrangersi contro il silenzio e la resistenza nervosa, indispettita, impaurita. Eppure si aspettano e ti chiedono cose che con quel male sono esattamente impossibili o difficili o vissute diversamente. E lì riprendi le redini, ti rimetti a bucare con pazienza quel velo di ignoranza, di confusione, di impreparazione e speri. Ma le speranze sono prontamente frantumate. Le risposte arrivano assolute, secche e asettiche. Norme, date, numeri, documenti. Nessuna differenza. Quel malato problematico, “molesto”, un appestato dal quale prendere le distanze o al quale non prestare alcuna vera e profonda considerazione diventa improvvisamente sano.
Non si permetterebbero di chiedere a uno con le gambe paralizzate di camminare e neanche ad un cieco di guardarli. Però possono domandare ad una mente malata di funzionare come una sana. Anzi lo pretendono, dandolo per scontato, procedendo per schemi, barricandosi dietro le regole.
Vuoi giustificare pure questo. Non so come, se di esseri umani si tratta, ma provi.
Però rimane la realtà…loro, le regole. Chi le ha scritte? E per chi? Nessuno ha conosciuto la schizofrenia cronica grave? Arduo crederci. Eppure la sostanza pare proprio questa. Tutti smarriti, nella ferrea logica delle loro sicurezze.
Avanti con le contraddizioni, insomma. Certi e risoluti ma assolutamente inadeguati. Come se gli orizzonti mentali del malato fossero davvero più ampi di quelli dei sani.
Come se non conoscessero l’umanità.
Come se non provassero mai vergogna.
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