Rubo l’espressione di Luis Sepulveda: narrare è resistere. Ecco, ho questa idea un po’ romantica e un po’ disperata della scrittura, sospesa tra amore e terapia. Gioia e bisogno. Anche al di là del significato civile che sicuramente investe il trasporto di Sepulveda.
Che poi il gioco, delle parole e della trama, è sfida, tormento, divertimento. E quello spazio confuso tra realtà e fantasia accoglie sogni, idee, dolori, agonie. Alla carta confidi e affidi. I pensieri che elaborati e infilati in una storia sembrano avere miglior vita, le ferite che gridate tra le righe trovano sollievo, le speranze o il coraggio che incollati su un personaggio respirano grandi emozioni. Tutte quelle sensazioni che ti esplodono dentro, che non ne puoi più di sentir saltellare sulla pelle. Quel silenzio che vuoi squarciare. Quella felicità che vuoi far volare per il mondo. E quell’angoscia nella quale puoi sprofondare se non trasformi energia, rabbia, tristezza, tumulto, istinto, passione in quella minuziosa, febbrile, eccitante, dolce operazione di composizione.
Perché ti nascondi un po’, ti coccoli un po’. Perché traduci la follia latente in storia, forse. O perché ti concentri così tanto su quella creatura della tua smania da placare la smania stessa. E magari esorcizzi la paura. O inventi un mondo immaginario nel quale rifugiarti serenamente. Qualche volta ti misuri con un genere che pare fuori dal tuo percorso, quello umano. E chissà che anche questo non sia un esercizio per depistare l’ansia e i grovigli interiori.
Spesso ho avvertito la scrittura come una vita parallela. Più autentica di quella reale. E ho capito che mi serviva. Per resistere a quella reale. Per trovare una dimensione che mi restituisse il senso che non riesco a dare al mio viaggio. Per compiere quella ricerca che le concretezze sviano, ostacolano, mistificano. Ma che poteva anche essere pericolosa, quella necessità impellente, assoluta, potente. Perché rischiava di farmi perdere molte pagine del librone della vita.
Mi sono chiesta a cosa rinuncia lo scrittore, a quanto tempo sottrae alla strada e alle pulsioni del giorno e della notte, a quanti attimi non respira. Mi sono chiesta se fugge da tutto e tutti pur di finire un capitolo o un libro intero. Mi sono chiesta se accumula solitudine o lucidità nel suo peregrinare tra amore e terapia.
Non ho trovato risposte illuminanti. So che spesso risolvo l’inadeguatezza e le pene, terribili, cercando sollievo in un foglio bianco da riempire. E che altre volte invece godo, sopporto o affronto quello che mi trasporta lontano dal foglio bianco. Ma non so quale condizione sia serenità e quale rassegnazione.
Forse in certi momenti di inquietudine profonda non è il caso di torturarsi con certi interrogativi…
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