Non intendo scivolare nella questione politica. In definitiva il coltello tra i denti è difesa, attacco, provocazione, ironia, gioco. Che sud e nord si strizzino l’occhio con amorevole attrazione è quasi fantasia ma è pur vero che entrambi hanno ragioni, torti, delizie e responsabilità che spesso fingiamo di non conoscere o ci ostiniamo a sottovalutare e stravolgere. Le interpretazioni, si proprio quelle che riescono a confondere addirittura il bianco con il nero… Figuriamoci le sfumature di grigio!
Costume, storia, cultura. E quel bagaglio che riassume e talvolta ammanta tutto di ostinata enfasi. Prezioso patrimonio, per carità, il profumo di una terra e tutte le sue note. Racconta la vita, dà un senso al sole, alla montagna, ai fiumi.
Questo respiriamo. L’aria che ci ha visti nascere, quella che ci svolazza intorno, quella nella quale muoviamo i passi e lanciamo lo sguardo.
Se poi diventa una gabbia allora dobbiamo preoccuparci, sentire il limite e il peso delle nostre arroganti certezze ecco. Rispettare e amare la nostra piccola culla non deve impedirci di crescere, sperimentare, incontrare, abbracciare nuove e diverse emozioni.
D’accordo, siamo nelle più romantiche atmosfere umane così. La realtà è più complicata, difficile, contraddittoria, amara. Imbevuta com’è di interessi, rancori, diffidenze ci appiccica addosso pregiudizi, rabbia, ingordigia. E, come sempre, a pelo d’acqua lascia affiorare tutta la buona e cattiva volontà delle idee e dei desideri. Un po’ di ingenua o ottusa buona fede, un po’ di arroganza, un po’ di paura, un po’ di ignoranza, un po’ di egocentrismo, un po’ di esasperato sentimentalismo.
Mescoliamo istinti, regole, orrori e sbandamenti e l’immagine si deforma, inevitabilmente. Alle luci si sovrappongono le ombre. Al dialogo si sostituisce la prevaricazione. All’incontro si preferisce lo scontro. Come sulle barricate. Quando si urla troppo forte e non si trova più il bandolo della matassa.
Si sprecano le accuse, i pregiudizi, il cronico lamento, le insofferenze.
Protestiamo, contestiamo. Ma tutto ciò che abbiamo lasciato fosse, che abbiamo contribuito a creare, che abbiamo omesso di fermare, che abbiamo trascurato o sminuito si ribalta contro di noi. Chi ha pensato di fare l’Italia ha proprio dimenticato di fare gli italiani?
D’altra parte nei decenni molti, troppi hanno goduto proprio di questo. Nulla è del tutto assurdo o casuale, accidenti. E immersi nella dimensione della divisione ci siamo lasciati depredare dell’orgoglio di essere un popolo. Abbiamo talvolta inzuppato il pane nel brodo del divario ma adesso solleviamo il capo, arricciamo il naso, storciamo la bocca in una smorfia di insoddisfazione. Ci è piaciuto essere poco disciplinati, poco omogenei, poco controllabili, poco seri. Come se la giostra fosse divertimento o scappatoia infinita. No, i conti alla fine si pagano.
In Piemonte che il professore siciliano pronunciasse la x o la y in totale sprezzo della nostra lingua in ogni ora di matematica era fonte di risate. Peraltro qualche neh di troppo avrà procurato analoga ilarità negli ambienti meridionali. Adesso non si tratta di chiudere le stalle a buoi scappati. Perché il nostro Paese è uno, uno solo. E la nostra lingua è una, una sola. Andrebbe ricordato solo questo. In ritardo ma…è meglio tardi che mai. Il resto è un modo per risolvere questioni che ci sono, è vero, ma che non si vogliono dichiarare. Insomma si propongono rimedi apparentemente atroci e insostenibili solo perché non si ha il coraggio di affrontare davvero realtà e verità.
Ci sono nodi da sciogliere. Molti. Ma di tutto si parla tranne che di questi.
Al nord la maggioranza dei posti nel pubblico impiego e nella scuola è occupata da persone del sud. Quelle del nord quando non spirava vento di crisi non si sognavano quasi di presentarsi ai concorsi, di lavorare al sicuro per lo Stato. C’erano le fabbriche, la libera professione, il commercio. Ai politici era così gradito poter accalappiare voti garantendo lavoro pubblico agli italiani del sud. E la girandola continuava a sfiorare allegra la buona pace di tutti. Ma evoluzioni, involuzioni, trasformazioni sono sempre in agguato…si è ammaccata la girandola, diciamo.
Ma questi sono spunti, solo spunti. Perché adoro il bolognese e il napoletano. Perché vorrei che i dialetti fossero un tesoro da custodire e perpetuare con vivacità e convinzione. Perché esigo, però, che l’italiano trionfi, nei cuori, nelle menti, nelle libere e forti unioni della gente civile.
Un tema così non si esaurisce neanche in un trattato. Ma iniziamo a lanciare la palla…
Chi vuol dire la sua?
La lingua è patrimonio di un popolo, parla della sua storia, ne perpetua tradizioni e modi di pensare, è un essere vivente soggetto ad evoluzioni che nasce e muore con il nascere ed il morire del popolo stesso. Scorri le parole, le strutture di una lingua, grammatica, etimologia, e saprai ricostruire le vicende della civiltà di cui rappresenta l'equivalente del dna. Torna indietro nel tempo, osserva la lingua di 20, 40, 100 anni fa: è un viaggio sorprendente.
Poi ritorna ai giorni nostri, e chiediti che fine ha fatto, e cos'è mai successo perché l'italiano si trasformasse in quest'accozzaglia di detriti sparsi, di neologismi generati ed affossati col nascere ed il morire delle mode, di parole andate in disuso nel nome di una non ben chiara 'semplificazione'. Chiediti come sia possibile che questa lingua sia usata ancora così diversamente nelle varie parti della penisola, al punto di fondersi nelle varie regioni con le lingue locali dando nascita a dialetti poco comprensibili al resto degli italiofoni, ed essere rimpiazzata dall'inglese non solo nel compito di evoluzione di qualunque lingua che si rispetti, assegnare nuove parole a nuovi concetti e nuovi oggetti, ma anche in quello di comunicare idee ordinarie.
Perché? Perché è una lingua adottata per un popolo artificiale, per un'Italia che in quasi due secoli non è mai riuscita a rimanere a lungo qualcosa di più che la famigerata 'espressione geografica' di lontana memoria e lungimirante concezione, per italiani che parlano le lingue locali in casa e l'italiano lo assorbono dalla televisione, lo scrutano nella scuola obbligatoria, lo ricordano negli atti pubblici, lo usano con approssimazione e disattenzione nel comunicare con i connazionali come fosse una lingua franca, un Esperanto ufficiale che vige dalla Valle d'Aosta alla Puglia, dal Friuli alla Sicilia, nei vecchi gruppi etnici, piemontesi, veneti, sardi, siciliani come in quelli nuovi, albanesi, slavi, arabi (nessuno si senta escluso, come sempre).
Ed in una situazione mondiale che vede l'affievolirsi dei confini al ravvicinarsi degli stessi, di un mondo dove nessun punto è davvero distante ed ogni luogo diventa importante in pari modo, non è detto che sia un male - in fondo, siamo un esempio di tollerante società multietnica da più di centocinquant'anni, così tollerante da non imporre neppure l'uso della propria lingua come requisito essenziale per la cittadinanza.
Scritto da: Chris | 17/08/09 a 12:56
ascolta, inizio a pensare di avere io dei problemi di comprendonio. ti chiedo, senza ironia, di condensarmi in due righe la tesi che sostieni in questo pezzo: ti giuro che non ci ho capito un'emerita mazza.
ciao
Scritto da: victor | 19/08/09 a 10:09
La questione dei dialetti non è roba seria. E' robaccia per far rumore. L'italiano si è storicamente affermato ed è mezzop di unione e comprensione in tutto il paese. Il dialetto è sempre stato affidato alla memoria dei vecchi che lo trasmettevano ai figli ed ai nipoti. E non è mai morto, anzi!
luigi
Scritto da: gobettiano | 21/08/09 a 11:51
victor sbaglio o non ti risulto mai chiara?! ti chiedo personalmente scusa, più di questo non so fare :)
Ciao!
Irene
Scritto da: irenespagnuolo | 21/08/09 a 17:00